L’upcycling, o riuso creativo, supporta un modello di green economy che sta diventando sempre più fondamentale in un’ottica di sostenibilità ambientale. L’upcycling rappresenta una grande opportunità per quelle aziende che vogliano ridurre significativamente il proprio impatto ambientale, costituendo un elemento importante nell’orizzonte della green economy. Il termine upcycling, o riuso creativo, designa infatti un processo che trasforma sottoprodotti o materiali di scarto in oggetti nuovi, allo scopo di accrescerne il valore. Ed è proprio questo incremento di valore dell’oggetto il tratto distintivo dell’upcycling rispetto al seppur utile recycling, che non prevede modificazioni nel valore reale o percepito.
Nel suo manuale Upcycling. L’arte del recupero, il designer Max McMurdo scrive: «A differenza del riciclo, in cui si riporta indietro un materiale nel suo ciclo di vita alle proprietà originarie, l’upcycling lo valorizza grazie a un design intelligente che lo rende più interessante a livello economico, estetico ed emotivo». In altre parole, l’upcycling permette di prolungare il ciclo di vita dei materiali, che si tratti di oggetti di uso comune o di scarti di tessuto. E in effetti, i due maggiori ambiti di applicazione dell’upcycling sono quello della moda e quello dell’architettura e del design.
Questo articolo si soffermerà sul processo di upcycling che negli ultimi anni ha raccolto sempre più consensi nel settore moda. In un articolo successivo si tratteranno invece le applicazioni di upcycling che hanno caratterizzato scelte recenti e innovative di architettura e design.
L’upcycling supporta la green economy rappresentando una risorsa fondamentale per l’industria della moda
Una relazione pubblicata dalle Nazioni Unite nel 2018 ha calcolato che l’industria della moda produce dall’8 al 10% delle emissioni globali di CO2. Il settore della moda, poi, consuma una gran quantità di risorse preziose, prima fra tutte l’acqua, lungo tutta la filiera produttiva. Inoltre, l’85% dei prodotti tessili finisce in discarica o negli inceneritori, quando la maggior parte di questi materiali potrebbe essere riutilizzata. Per invertire questa tendenza in direzione di un’economia green e circolare, l’industria della moda può percorrere due strade: il recycling e l’upcycling.
Il settore moda individua nel recycling un percorso di riciclo di capi d’abbigliamento che prevede lo smantellamento dei singoli pezzi e materiali che li compongono. Da qui segue lo smistamento e la lavorazione dei materiali, per ottenere infine un prodotto più o meno simile a quello originario. Tuttavia, un recente rapporto della Ellen MacArthur Foundation ha evidenziato che meno dell’1% dei materiali utilizzati per produrre capi di abbigliamento è riciclato in nuovi capi. Si tratta di una percentuale irrisoria, soprattutto a fronte dell’utilizzo di 98 milioni di tonnellate di risorse non rinnovabili ogni anno.
Inoltre, il semplice riciclo non può essere una soluzione sul lungo periodo, perché implica nuovi processi di lavorazione che, per quanto sostenibili, hanno comunque un impatto sull’ambiente. A differenza del recycling, l’upcycling non richiede una lavorazione ulteriore dei materiali e questo gli consente di avere un impatto ambientale quasi azzerato. Infatti, il processo di upcycling non produce emissioni di CO2 e riduce significativamente la quantità di indumenti che vengono gettati via dopo l’utilizzo.
Verso una moda sostenibile: progetti che abbracciano la filosofia dell’upcycling
Negli ultimi anni l’upcycling è diventato una tendenza nel settore moda che supporta la green economy, con sempre più brand e designer che vi ricorrono per le loro creazioni. Abbracciare la filosofia dell’upcycling in questo settore significa ribaltare l’intero processo produttivo e ridurne drasticamente l’impatto sull’ambiente, in direzione di una moda più sostenibile. L’upcycling infatti costituisce una preziosa alternativa al modello della Fast Fashion che ha dominato gli ultimi cinquant’anni e che si è rivelato insostenibile. Ignorare i costi ambientali e sociali connessi alla Fast Fashion, che incoraggia un sovraconsumo di abiti e genera un’incredibile quantità di rifiuti, semplicemente non è una strada percorribile.
Questa consapevolezza è alla base di un gran numero di progetti di brand e aziende che da tempo puntano su una moda green e sostenibile. È il caso per esempio del brand indipendente Studio Sartoriale, fondato nel 2017 a Verona dalla fashion designer Giulia Franzan. Studio Sartoriale valorizza il made in Italy, utilizzando tessuti in quantità limitata provenienti da un processo di ricerca tra le rimanenze di magazzino dei laboratori italiani. La stessa filosofia è alla base di Aramù, che realizza capi con tessuti reperiti tra le giacenze di importanti produttori tessili italiani, soprattutto biellesi. Aramù ha deciso di confezionare ogni capo su ordinazione, per poter pianificare meglio il lavoro di sartoria e produrre il giusto quantitativo di capi.
L’approccio upcycling che caratterizza il settore dell’abbigliamento si riscontra anche nel settore calzaturiero italiano, uno dei pilastri del sistema moda. IINDACO, per esempio, è un nuovo marchio di calzature made in Italy che si propone di innovare il lusso attraverso l’uso di un modello di economia circolare. Le fondatrici del brand, Domitilla Rapisardi e Pamela Costantini, hanno deciso di impegnarsi nella creazione di un progetto ecosostenibile di alta qualità. I materiali con cui sono realizzate le calzature IINDACO comprendono infatti tessuti e pellami reperiti nei magazzini e negli stock lungo tutta la penisola. Inoltre, le pelli utilizzate per il confezionamento delle calzature dipendono principalmente dai sottoprodotti dell’industria della carne e dei prodotti caseari. Opportunamente trattati e trasformati, questi scarti diventano prodotti di qualità per la creazione di beni che possono essere tramandati di generazione in generazione.
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Immagine di copertina: Adobe Stock